L’opera vincitrice della 40ma edizione del premio, Analemma, è stata proposta dal duo di artisti newyorkese Mark Barrow & Sarah Parke, ed è stata allestita presso Cappella Cavassa, una sala rinascimentale inserita nel chiostro del convento di San Giovanni a Saluzzo.
Analemma consiste nell’applicazione di oltre 60.000 pellicole colorate e trasparenti dalla dimensione di 1×1 cm su quattro delle cinque finestre della Cappella Cavassa. L’opera è ispirata dagli edifici religiosi che gli artisti hanno visto durante il tempo trascorso in Italia, specificatamente a Roma, dove le chiese cristiane erano costruite al di sopra di architetture imperiali e ne riprendevano esistenti iconografie, creando così un molteplice livello fisico di spazio e tempo.
La natura dell’installazione di Barrow e Parke utilizza come punto di partenza la finestra circolare della cappella, l’unica che non è direttamente interessata dall’intervento ma che funge da punto di riferimento. Questa finestra ricordava agli artisti una loro precedente composizione, realizzata sovrapponendo cerchi che si riferivano a stelle che si muovevano nello spazio. Come punto di partenza per realizzare i pattern delle quattro vetrate della Cappella Cavassa, ciascuno dei due artisti ha cercato individualmente di ricordare quella composizione e i colori che avevano utilizzato. Ogni artista ha lavorato su una delle due coppie di finestre della Cappella che, con forme diverse, si fronteggiano e sono in dialogo tra loro. La differenza nelle decorazioni che compongono l’opera nasce proprio dalla discrepanza tra la memoria dei due artisti e nell’impossibilità di ricordare in modo univoco la composizione originale, mostrando così la natura soggettiva della percezione della memoria. Queste discrepanze creano anche un movimento di forme circolari da finestra a finestra che marcano il passaggio del tempo, come il ciclo del Sole durante l’anno e allo stesso modo incorporano l’idea di una memoria che sbiadisce e la difficoltà nel provare e ricordare qualcosa, come una stella che è in continuo movimento. Simultaneamente l’opera prova a racchiudere questo flusso temporale: generate pixel per pixel, le vetrate misurano il tempo bit dopo bit. Il progetto stesso immagazzina questi minuscoli frammenti di informazione temporale come la memoria di un computer.
L’opera si sviluppa come un intervento delicato e poetico, interagendo in modo effimero, attraverso la luce che dà corpo all’immagine, con i suggestivi dipinti e decorazioni della Cappella. Il risultato finale mescola la tecnica delle vetrate e quella del mosaico, la tradizione passata e le tecnologie presenti, unendo la minuziosità dell’atto fisico necessario per ricreare i pattern alla composizione digitale degli stessi. L’immagine si sviluppa attraverso motivi diversi ma ripetuti, richiamando per certi aspetti i meandri dell’arte greca e romana antica, simbolo di infinito e unità. All’interno dello spazio lo spettatore può sentirsi disorientato: questo dialogo tra la temporalità dell’opera e della Cappella, edificata nei primi del Cinquecento, non avviene per contrasto ma piuttosto in continuità, quasi mimetizzandosi in un processo di decodifica dell’immagine, come se in qualche modo le vetrate fatte di frammenti rossi, blu, verdi e neri, potessero essere lì da sempre.